Traccianti

La notte del 17 gennaio 1991 rientravo a casa verso le due da non ricordo quale serata e rimasi sorpreso di trovare mio padre sveglio, che guardava la televisione in cucina. La cosa non era strana di per sé – mia madre andava a dormire molto prima di lui – la sorpresa stava piuttosto nel fatto di non vederlo sdraiato e sonnecchiante sul divano ma invece diritto, in piedi davanti alla televisione, con le mani appoggiate al tavolo, che scuoteva la testa in silenzio.

Alla televisione lo schermo scuro era traversato in silenzio da strisce luminose e punti di luce verde, c’era in sovrimpressione il marchio della CNN, ben visibile e le voci in sottofondo dei commenti in inglese riempivano il vuoto di parola italiano. Si girò a guardarmi, mio padre; io ero sulla porta della cucina e nella penombra vidi che aveva gli occhi lucidi; mi disse solo: “a l’è ‘ncaminá” (è iniziata) e quindi, dopo un lunghissimo  minuto: “non credevo che avrei visto di nuovo qualcosa di questo genere“. Era tutto lì; non c’era altro da dire e non c’era bisogno di dire altro.

Il nodo della sua gola si allargava nella mia e da allora lo sento, ad ogni notiziario di guerra, ad ogni esplosione notturna che luccica dai notiziari. Era chiaro, senza bisogno di parlare, che dietro i suoi occhi le luci su Baghdad si specchiavano in quelle – sempre americane – dei bombardamenti su Torino fra il 1940 e il 1945, decine di incursioni, da non riuscire a ricordarle tutte; bombe che aveva sentito arrivare quando faceva le scuole elementari, mentre suo padre cuoceva una rara pentola di pasta oppure, se andava bene, già da dentro il rifugio.

Quel nodo alla gola era figlio di un’esperienza dolorosa, eppure proprio in quel dolore aveva ancorato un senso silenzioso di fratellanza verso gente sconosciuta prigioniera sotto altre bombe, sotto tutte le bombe; chiunque le sganciasse e per qualunque ragione. Non era un pensiero che mio padre avrebbe detto volentieri, a parole, ma quella notte sono andato a dormire portandomelo addosso ed è ancora lì, intatto.

Oggi dopo più di trent’anni, i notiziari televisivi sono stati largamente sostituiti dalle “breaking news” via internet e gli americani (ancora loro) collaborano con i peggiori regimi del mondo per abolire ogni criterio di legalità internazionale sostituendola con logiche da triade o da cupola corleonese. Oggi che il governo USA bombarda l’Iran senza giustificazioni e al contempo protegge il genocidio dei Palestinesi da parte di Israele tanto quanto l’invasione russa dell’Ucraina, il senso di impotenza e di frustrazione che queste notizie mi scatenano trova un argine solo nel senso muto di fratellanza che ho imparato dal lucido degli occhi di mio padre, in cucina, davanti ai bombardamenti su Baghdad.

C’è un brano di una poesia di Mario Benedetti che raccoglie a mio avviso questo senso di solitudine e di comunanza, mischiati allo sgomento che la morte, la morte improvvisa degli altri, può provocare. Lo riporto qui come una specie di medicina

[…] Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono.

Non abbiamo creduto che fosse così:
ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.

Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore
su ogni cosa guardata, toccata.

Qui durano i libri.
Qui ho lo sguardo che ama qualunque viso,
le erbe, i mari, le città.
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.

Da “Umana gloria” di Mario Benedetti (Mondadori, 2004)


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