Immaginare / Emmerico Boso

La vedi ora, come posso vederla anche io questa figura distante, mentre cammina sulla neve blu e il calore del corpo si svapora dal cappotto scuro, nel freddo, per nuvole sottili di fiati verticali e gocce di vapore brinato nelle cuciture. Lo vedi, che scende ogni giorno dal Piccolo San Bernardo, prima dell’alba, perché vuole raggiungere la Val d’Isére dove i compagni espatriati lo aspettano come sempre, per parlare del lavoro che non si trova e dei morti a Carrascal nell’aprile del ’37. Scende ancora e comunque, tutte le notti, Emmerico, anche sapendo di avere in tasca un passaporto scaduto e ogni notte sorride, corrugando la pelle fredda, perché dopotutto ama camminare e conosce le montagne. Ha traversato il Tonale e il Gottardo, è tornato da Arborn, è scappato da Torino, è passato da Chambery, ha lavorato a Thonon le Bains e conosce il rumore dei passi sulla neve, il respiro regolare sotto la fatica, la tensione degli spallaci sulla schiena. 

Emmerico Boso, dice il Questore di Trento, è bruno, di statura media, i capelli sono neri, gli occhi castani, il naso è convesso e la fronte alta. E’ comunista, è anarchico, dice la scheda presso il Ministero, bisogna fermarlo e perquisirlo; intercettare la posta, controllare le sorelle. Eccolo che scende, come ogni notte e ogni notte i militari di confine escono dalla garitta e lo fermano; torna qui, sempre, dopo essere passato attraverso il forno a massa continua di corpi della premiata ditta Topf & Söhne di Erfurt; dopo le cave di granito e gli esperimenti nutrizionali con la segatura nell’ospedale di Mauthausen. Ogni mattino Emmerico arriva dal sentiero e si presenta ai soldati italiani sul posto di frontiera e nelle tasche ha tutti i documenti della vita e i segni del controllo asfissiante, le lettere ricevute dal fratello Ilario, le bastonate al fratello Cesare, lo stupro sul corpo di sua sorella Lidia e ancora le cartoline spedite da Ventotene a tutta la famiglia e la domanda di liberazione inoltrata dopo l’8 settembre e infine, ancora, il ricordo sbiadito di suo padre che una sera, dietro il maso, gli insegna a sistemare le trappole per gli uccelli da mangiare il giorno dopo con la polenta.

Ha traversato le montagne Emmerico, ha fatto il muratore, lavorato alla Snia Viscosa, raccolto libri e riviste a Thonon, è  stato carpentiere, è stato elettricista, ha rubato quand’era soldato, ha fatto l’infermiere, ha fatto il cuoco, ha lavato i piatti e curato la tristezza, trasportato la frutta, sollevato la rabbia. Sorride fumando una nazionale prima di consegnarsi ai militari, con in tasca il passaporto scaduto e una cartolina di Ventotene ancora da visitare e da scrivere. In lontananza di decenni e silenzio la sua figura ha consistenza di collage; tagli di papier collês puntati nella stoffa grezza, sula tela che veste gli ultimi. Il profilo è scomposto, fermato al tavolo con lunghi spilli da un demone cubista e poliziotto, che sorveglia le donne e rincorre gli  uomini con astio occhiuto, da lontano, invidiando loro la forza e certamente, adesso, la vita.

(foto: Emmerico Boso in: Graziella Menato e Paola Zotta, Eravamo dei ragazzi. Spigolature di guerra e prigionia…” 2014)

Lascia un commento