Immaginare, trascendere

Luglio 2023, siamo in vacanza in Ardéche; tornando dalla visita ad un ecomuseo sulla filatura della seta, decidiamo all’ultimo momento,  anziché rientrare in campeggio, di proseguire curiosando a zonzo per la strada che si inoltra nella campagna e risale poi con poche curve decise verso le falesie che fanno da sponda al fiume. È così, assolutamente per caso, che scopriamo l’altopiano di Jastres, un plateau brullo, dove la macchia mediterranea sta riprendendo gradualmente vigore dopo un incendio che l’ha devastata da pressappoco un anno . Il terreno è  sassoso, traversato da numerosi muri a secco, a tratti avvolti da arbusti e rimanenze di quel che a me sembrano antiche recinzioni per dividere le proprietà.

Nella mia immaginazione l’altopiano doveva essere percorso da pastori e capre; vedo pascoli suddivisi, un’economia rurale ormai abbandonata. Alessandra invece ci vede i resti di edifici volontariamente isolati dagli abitati a valle, magari per ragioni di sicurezza o sanitarie; forse un antico lazzaretto.

Mentre procediamo lenti, affascinati dal paesaggio, intravvediamo un cartello in uno spiazzo adattato a parcheggio, leggiamo lì, per la prima volta, il nome Jastres e scopriamo che su quell’altopiano  si trovano due siti galloromani, dei quali ciò che abbiamo intravisto dall’auto è probabilmente solo una estremità. Il giorno successivo, dopo colazione, torniamo sull’altopiano a visitare quel che intanto abbiamo scoperto chiamarsi Oppidum di Jastres, e scopriamo che si tratta della capitale dei galli Elvi, fortificata fra il II° ed il I° secolo a.C. prima che, con la conquista romana, gli Elvi andassero a fondare la città di Alba Elviorum (oggi Alba-la- Romaine). Ne restano i segni sul terreno e le possenti mura di pietra a secco, rinforzate da torri semicircolari, affacciate sulla falesia che dall’alto sorveglia l’Ardeche e la valle di Aubenas.

Arrivando nella spianata davanti al bastione l’emozione è forte; l’immagine delle pietre bianche, dei rami e degli arbusti anneriti dal fuoco, che ancora spuntano qua e là nella vegetazione, fra i ligustri, i cardi spinosi, il profumo del ginepro, i cespugli di iperico fioriti di giallo, il bianco intenso dei fiori di clematide, il verde carnoso delle euforbie, i cardi rotondi color malva, l’erba viperina quasi strisciante, la fioritura a lunghi batuffoli chiari della melica barbata, le foglie lucide degli arbusti di acero minore, e infine l’ombra rugosa e puntuta di alcuni grandi lecci cresciuti a ridosso delle mura e fortunosamente sopravvissuti all’incendio.

Ma cosa governa, dentro di noi, questa disponibilità a lasciare che le percezioni indirizzino le nostre emozioni verso un vissuto atemporale e quasi magico? Che potere ha sulle nostre emozioni il nostro immaginario o, se si preferisce, la nostra immaginazione?

L’altopiano è selvaggio, assolato, incredibilmente luminoso, annegato nel caldo, immerso nel frinire assordante delle cicale, che confonde i sensi e alimenta lo stato di sovraesposizione emotiva che consente ai nostri pensieri di dipanarsi in una dimensione sospesa e atemporale nella quale non ci stupirebbe veder passare davanti a noi anche  un contadino del I° secolo o un lebbroso del X°.

Cosa ci mette dunque in questa disposizione davanti ad un soverchiante spettacolo naturale? Curiosamente, il libro che sto leggendo in questo periodo pare offrirmi la giusta sponda a queste considerazioni. Si tratta de: L’angelo necessario di Wallace Stevens (1951), che contiene, fra gli altri, un saggio dal titolo: Effetti dell’analogia (pp. 95-112), nel quale l’analogia stessa viene considerata come un tipo particolare di similitudine. In particolare, Stevens considera il potere descrittivo della capacità immaginativa e si sofferma  sul maggiore o minore legame con le emozioni che le immagini possono avere, sottolineando che vi sono diversi “gradi di appropriatezza” delle immagini al tipo di emozione che si intende trasmettere.

L’immagine che nasce dall’emozione, nota Stevens, partecipa e trasferisce a chi ascolta o legge l’emozione stessa, in modo anche più veloce e immediato rispetto al pensiero “verbale”, perché “l’azione dell’immaginazione è più rapida di quella della ragione” (p. 100).

A Stevens interessa dunque l’analogia “come similitudine,  come somiglianza fra cose parallele, anche se sono tali solo per l’immaginazione” (pag. 97). Stevens definisce questa ricerca dell’immagine più appropriata come una vera “disciplina dell’adeguatezza”  e la descrive come una sorta di “potere interiore” di usare la realtà in modo adeguato ai propri scopi“.

Una delle conseguenze di questo uso appropriato e disciplinato dell’analogia è ciò che ci colpisce, ad esempio, nella poesia e nelle narrazioni che ci emozionano, nel senso che la poesia scaturisce come conseguenza di “una retorica nella quale le emozioni di una persona si trasmettono ad un altra con parole di una proprietà talmente perfetta da privarle di tutta la loro verbosità‘ (p. 103).

Dunque l’immaginazione, quando  viene adoperata in modo appropriato per trasferire le emozioni che una certa realtà provoca, genera una vera forma di trascendenza, una trascendenza del tutto terrena, un andare oltre il reale, utilizzando per questo trascendere proprio elementi della realtà e questo al fine di avere del reale una comprensione più  profonda.

Questa trascendenza della realtà si compone dunque di immagini tratte dalla realtà stessa, in virtù dell’idea che chi la produce ha del mondo che osserva. Ma se questo è vero, se Stevens ha ragione, il potere delle immagini agisce anche, per così dire nella direzione inversa, quando la realtà che sperimentiamo si imprime nei nostri sensi richiamando e mescolandosi a ciò che abbiamo visto, vissuto, letto e ascoltato in precedenza.

Così, in base a quel che già siamo, il nostro immaginario continua a nutrirsi e a nutrire la nostra capacità di trascendere la realtà in cui ci troviamo, al solo scopo di viverla in modo più profondo e completo; al solo scopo di comprenderla meglio.

Ma il repertorio di immagini, l’immaginario entro cui pesca la capacità immaginativa di ciascuno è un catalogo individuale o appartiene ad un insieme più vasto?

E, in questo caso, di che natura sarebbe questo “repertorio”?  Si tratta di una disponibilità innata e dunque uguale per tutti gli esseri umani? O piuttosto si apprende e dunque è un costrutto culturale?

Viene elaborato a livello consapevole, nasce invece nell’inconscio? Oppure coinvolge contemporaneamente sia la consapevolezza che “il profondo”?

Si tratta di domande fra le più affascinanti, per rispondere alle quali serve, io credo che ciascuno faccia il suo percorso di ricerca. Wallace Stevens, per parte sua, lascia capire in alcuni passaggi del saggio quale sia il suo orientamento. Ad esempio quando dice che: “il poeta sente che la sua immaginazione non gli appartiene interamente, ma che forse essa è parte di un’immaginazione più vasta, più forte, che è suo compito scoprire” (pag 101)

Dunque, sull’altopiano di Jastres io e Alessandra abbiamo  sperimentato con forza  l’immagine di questa natura mediterranea abbacinante e la presenza dei resti di antiche comunità umane che hanno favorito, di analogia in analogia, di immagine in immagine, la nostra propensione a trascendere la realtà. Trascenderla, beninteso, solo per viverla più profondamente.

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