Il 25 gennaio 1962, verso le dieci di una limpida mattina, il Maresciallo Della Giovampaola uscì malvolentieri nel freddo pungente per recarsi all’Ospedale Santa Croce di Moncalieri ad ascoltare “la nota vagabonda Virginia dei Cani” in merito ai fatti della notte precedente. Secondo l’informativa i Vigili Urbani l’avevano trovata ferita e completamente infangata mentre vagava in stato confusionale, in cerca di aiuto nelle vicinanze della borgata Barauda, sul ciglio della Chisola. “cosa c’è di strano? “- pensava fra se – “una vecchia vagabonda, che vive sotto i ponti, una notte di maltempo scivola, cade nel concio e si fa male… Che c’è di nuovo? Che ci azzeccano i Carabinieri?“
Era stizzito, il Maresciallo, anche perché aveva scoperto di buon mattino, prendendo il caffè, che sua moglie sapeva già tutto dal panettiere di Borgo Navile e insisteva – come una moglie sa insistere – perché lui andasse all’ospedale a capire se qualcuno avesse fatto del male a Virginia… perché giravano voci da quelle parti e insomma, in tanti anni, sotto il ponte, a Virginia non era mai successo niente . “…ma Elvira, via, cosa c’entrano i carabinieri?” Aveva sospirato, con gli occhi al soffitto, già consapevole dell’esito della conversazione. E poi verso le nove, mentre controllava i verbali, era arrivata per buon mercato anche la telefonata del Cavalier Rondolotto, pure lui che lo pregava tanto neh, di andare ad ascoltare la vagabonda, che lui era già andato a trovarla al Santa Croce e che lei sosteneva di essere stata aggredita e picchiata e quella povera donna non aveva mai fatto male a nessuno e insomma, se non gli avesse promesso di andarci, all’istante, era chiaro che anche il Cavaliere come Elvira non avrebbe mollato.
Certo però che era strano, a pensarci, rifletteva sovrappensiero il Maresciallo scendendo da via della Croce. Per essere stramba Virginia era stramba forte, sempre in giro, a cantare nei cortili, con tutti quei cani attorno, sempre gentile con tutti, educata nei modi, istruita più della media; chi poteva volerle male?
Ad ogni modo Rondolotto, col suo fare cortese e riservato, era difficile rifiutargli un favore quando proprio lo chiedeva. Un uomo serio, molto conosciuto a Moncalieri, il fotografo del Real Collegio Carlo Alberto, buon amico del Capitano. Come negargli una cortesia? E per Virginia, in definitiva, l’aveva proprio chiesta.
“Sono già andato a trovarla anche io, Maresciallo” – l’aveva incalzato al telefono – “…è agitata, dice robe strane, parla di uno che l’ha picchiata… ma chi può essere stato a prendersela con Virginia dij Can? Della Giovampaola, per piasì…. ch’a fasa ‘n saut a sente co chiel….* E così alla fine, sbuffando, aveva preso il suo cappello , il soprabito scuro e si era incamminato con la zizzola che pungeva le mani, per la strada che porta all’ospedale, pensando a tutte le volte che l’aveva vista arrivare, Virginia, con la sua carrozzina piena di cianfrusaglie, i cani di qua e di là che le obbedivano ad uno sguardo e lei severa, sorridente, che poi li faceva accucciare davanti alla porta della chiesa ed entrava… tutta sporca e stracciata com’era, per prendere la comunione.
Eppure – sorrise senza rendersene conto – quando cantava cambiava completamente, diventava un’altra, sembrava di vederla, ancora giovane e bella, cantare “nei teatri” come diceva spesso lei stessa.
Mentre saliva gli scaloni dell’ospedale, sbottonandosi il soprabito, Della Giovampaola diede un’occhiata rapida alla scheda dell’ECA, l’Ente Comunale di Assistenza, che aveva recuperato passando in Municipio; Virginia dei Cani – come la chiamavano tutti, prendeva il sussidio ormai da quasi una decina di anni e rispondeva al nome di “Virgilia Maria Malagoni Lopez, nata nel 1890 a Pocrí de Aguadulce“, in una provincia settentrionale della Colombia bagnata dall’Oceano Pacifico. Una provincia che – come l’aveva ragguagliato al bar il coltissimo Rondolotto – pochi anni dopo sarebbe entrata a far parte del Panama. Ma le notizie certe erano tutte li; per il resto quel che si sapeva su Virginia erano chiacchiere, racconti, cose dette, riferite, ripetute, forse travisate. Si poteva istruire un fascicolo in questa maniera? “Io sono un carabiniere, Elvira, non posso stare lì a nazzicar le chiacchiere…” aveva detto e ridetto quella mattina a sua moglie, provando comunque a montare una resistenza, per quanto debole. Ma qualcosa – e nemmeno lui avrebbe saputo dire esattamente che cosa – gli diceva che non era il caso di infischiarsene.
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Qualche “fatto”, recandosi all’ospedale, il Maresciallo Della Giovampaola ebbe modo di raccoglierlo: la cartella clinica raccontava di diverse costole rotte ed ecchimosi estese sul viso, alla base del collo, sulle braccia, anche sulle reni; era un po’ troppo, in effetti, per una semplice scivolata sul fango. Leggendo i documenti, sovrappensiero, percorse tutto il lungo corridoio e senza pensarci entrò nella camera che gli avevano indicato, dove alzando gli occhi vide all’improvviso Virginia dei Cani, stesa nell’ultimo letto vicino alla finestra. La trovò pallida, coi capelli corti, tagliati malamente; magra e minuta che quasi la testa scompariva nel guanciale bianco. Gli occhi neri, prigionieri fra le palpebre gonfie, erano accesi di febbre e di spavento. Della Giovampaola si fermò di colpo. Di Virginia aveva in mente la figura allegra, la voce alta, la risata rotonda, lo sguardo intelligente sotto la fronte sempre nera di polvere; davanti a lui, invece della vagabonda istruita che cantava arie di melodramma traversando le frazioni da Moncalieri a Vinovo, c’era una vecchia spaurita, febbricitante, smarrita in quel letto d’ospedale che attorno a lei risultava davvero enorme. Rimase così, appena oltre la soglia, con la bocca aperta e la scheda dell’ECA stretta nella mano sollevata a mezz’aria. Era impressionato e non gli capitava spesso.
Il maresciallo si accorse, solo in quel momento, di essere entrato troppo velocemente; il soprabito e i baffi neri portavano nella stanza d’ospedale il disturbo della strada; il rumore dei suoi passi lungo il corridoio aveva fermato le voci e alzato gli occhi dei presenti verso la porta. Sentì lo sguardo delle donne ricoverate e delle suore infermiere posarsi sopra di lui, con un misto di spavento e di malizia, bizzarramente mescolati. Aveva immaginato una visita più discreta ma, ormai, era tardi per rimediare. Mentalmente annotò di ringraziare Elvira quella sera.
Nella camera illuminata, ma non troppo rischiarata, si era allargato al suo ingresso un silenzio intimorito del quale, tuttavia, il Maresciallo non poteva accorgersi impegnato com’era a dissimulare il suo stesso disagio. Si accorse invece, ad un tratto, che la propria mano era rimasta sollevata a mezz’aria, coi documenti pinzati fra le dita e la abbassò repentinamente. Con un cenno del capo cercò poi di attirare l’attenzione della suora più vicina, senza produrre altro rumore inutile, mentre con l’altra mano si toccava il cappello, ad uso sintetico di saluto. Attese. Non ci furono reazioni. Dopo qualche istante ne ebbe abbastanza e ruppe il silenzio con un laconico e ufficiale: “Maresciallo Della Giovampaola; buongiorno” che gli parve però uscire rauco, quasi inciampando nei baffi; di modo che il suo disagio invece di risolversi ne crebbe ulteriormente.
La suora si avvicinò al Maresciallo, lentamente, sistemando con una mano alcune medicine dentro una scatola e senza mai guardarlo direttamente, col fare distratto di chi ha ben altro di cui occuparsi. Quando stava quasi per superarlo, sulla soglia della stanza, il maresciallo la fermò:
“Suor Maria Vittoria, buongiorno” le disse, questa volta in modo più fermo ma comunque usando il volume basso che si usa negli ospedali, per discrezione e per non disturbare.
“Cerea Maresciallo!” rispose invece questa, con squillante accento torinese e riempiendo l’aria con la sua voce decisa, al limite del canzonatorio.
Suor Maria Vittoria fece ancora un passo, alzando finalmente il viso dalle medicine e puntando su di lui due larghi occhi, grigi quasi come il ghiaccio ma curiosi e mobilissimi; in apparenza sempre sul punto di scappare in avanti e invece sempre attenti, vigili, incollati a quelli dell’interlocutore. Era una suora sulla trentina, non alta, rotondetta, dalle guance arrossate e dai modi franchi.
“E’ qui Virginia?” Le chiese il Maresciallo, fingendo di non saperlo già, un po’ per dissimulare il proprio disagio e un po’ per controllare di non essersi sbagliato.
“Ma come non la riconosce Maresciallo? Neanche lei?” fece Suor Maria Vittoria, stupita. ”E’ là nell’ultimo letto… Ed è molto agitata“
Della Giovampaola guardò nuovamente il letto in fondo, questa volta con più attenzione: Virginia era sveglia, con la testa girata verso la finestra, gli occhi socchiusi e gonfi; muoveva appena percettibilmente le labbra, come per una preghiera sussurrata o una canzone che risuonava solo nella sua memoria e sembrava non essersi accorta del suo ingresso. La studiò. ancora qualche istante; i lineamenti ancora gradevoli erano segnati da rughe profonde e da una magrezza che non le aveva mai notato. Il candore della pelle, interrotto da larghi lividi rosati sul collo e sulle mani, lo colpiva più di ogni altra cosa. In tanti anni non l’aveva mai vista pulita, pensò, sorridendo, senza ombra alcuna di ironia.
“Che significa: neanche io?“ indagò il maresciallo, guardando preoccupato la suora. “qualcuno è già venuto a trovarla; intendo dire oltre il Cavalier Rondolotto“?
“Qualcuno?” Sorrise Suor Maria Vittoria, “Che il Signore mi perdoni, direi che ‘qualcuno’ non è l’espressone giusta Maresciallo. L’espressione giusta è: processione. Abbiamo avuto una vera processione, qui, da ieri sera.“
Il Maresciallo sollevò entrambe le sopracciglia. La questione era sul punto di complicarsi, lo sapeva, lo sentiva; lo percepiva quasi, con l’istinto allenato dello sbirro e con quello, altrettanto levigato, del marito di una moglie curiosa e molto conosciuta a Moncalieri.
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Questa storia è arrivata fino a me, attraverso mio padre, oltre 30 anni fa, circa 30 anni dopo la morte di Virginia dei Cani. Io ne sono rimasto affascinato e ci ho costruito sopra la mia tesi di laurea, per poi dimenticarla, a lungo, fra le cose da fare e le urgenze del vivere. Poi, all’improvviso, poco tempo fa, non so affatto perché, Virginia è tornata da me con la sua storia e una nuova urgenza di farsi raccontare. E ho deciso di raccontarla qui, su Masticadores, perchè è una storia che, come questa pagina, attraversa molti luoghi e molti confini, coinvolge persone e ambienti diversi; è una storia di quelle che attraversandoci la vita lasciano un segno e non è semplice capire il perché.
La storia continua; prossimamente il terzo appuntamento
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