Luoghi di passaggio (e come pensarli)

Terza parte degli appunti di lettura relativi ad Autorizzare la Speranza (Italo Testa, Interlinea, 2023).

(foto Davide Suppo, Alumetal Montecatini, Mori, TN)

Ho esaminato la parte introduttiva del libro in questo post e proseguito con l’analisi del primo capitolo, Giustizia poetica, in quest’altro. Qui invece procedo nella lettura, esaminando il secondo capitolo: Futuro radicale, che a sua volta è strutturato in tre parti: Futuri a rovescio e Les jeux ne sont pas encore faits; che sono l’oggetto di queste osservazioni. La terza sezione, dal titolo: Verso la X. Poesia e Terzo paesaggio, che è anche comparsa nel 2019 sulla rivista online Leparoleelecose.it all’interno dell’indagine che Laura Pugno ha dedicato al concetto di terzo paesaggio, sarà oggetto di un ulteriore successivo post.

La sezione Futuri a rovescio si apre con l’affermazione che la  natura della poesia è collegata ai luoghi; Testa dice proprio che è topologica, un termine che a me ricorda innanzitutto i giornalini (non posso evitare l’associazione di idee con Topolina, anche se questo mi imbarazza) ma è probabilmente il modo più preciso di dirlo.

Ma dove sta precisamente il collegamento fra poesia e luoghi? Sta negli spazi di transizione, fra un luogo e l’altro, fra concreto e astratto, fra interno ed esterno, fra naturale e artificiale. E a me viene da aggiungere, con reminescenze antropologiche: fra pubblico e privato, fra domestico e sociale, fra selvatico e coltivato. Al di là dell’opposizione binaria preferita da ciascuno, il collegamento prende forma nella scelta di percorrere in particolare i luoghi che sono “limen“, ovvero confine simbolico, per dirla in termini antropologici. Nel confine, nella siepe, quella che tanta parte dello sguardo… eccetera, ma anche quella che più quotidianamente divide il giardino della villetta dal campo coltivato adiacente; sta nel confine fra il bosco e la maggese. Sta nella strada bianca, che separa la zona industriale dal coltivo a mais.

Queste “zone di passaggio“, dice Testa, costituiscono uno spazio inconcluso, non finito oppure abbandonato, indeterminato. Qualcosa che appare come interruzione, rottura di un ordine, per certi versi anche estetico. I paesaggi attraversati, o meglio il passaggio, la transizione da uno all’altro, dovrebbe rappresentare dunque il soggetto privilegiato dell’esperienza poetica. “Il legame con i luoghi in poesia diventa una trama di opposizioni e convergenze” (pag 63), trama che emerge da una circolazione fra i luoghi concreti e la loro trasposizione nel testo.

Per chiarire meglio la qualità specifica di questi luoghi di transizione, l’autore li definisce ad un certo punto come “non-luoghi” e qui la mia attenzione nutrita di passate letture “antropologiche”, già risvegliata dal riferimento ai luoghi di passaggio, progredisce rapidamente in curiosità, perché la categoria di “non-luogo” richiama esplicitamente alla mente (non so se per scelta o per mera consonanza) tutto il dibattito antropologico relativo appunto ai non-luoghi, dibattito che però porta con sé implicazioni decisamente fuorvianti rispetto al percorso argomentativo di Testa. In particolare, il concetto di non-luogo sviluppato in ambito antropologico porta con sé un’attribuzione di a-socialitá e a-storicita che è nella lettura fattane ormai più di trent’anni fa da Marc Augė; è nel suo punto di osservazione su aeroporti e centri commerciali, nel quale la posizione dell’osservatore e quella del cliente sostanzialmente coincidono.

Marc Augė non pensò di problematizzare questa situazione, ovvero il fatto che egli stesso faceva osservazione degli spazi commerciali in qualità di cliente e anzi, al contrario, la assunse come dato “naturale”. Se avesse provato, per esempio, ad osservare anche dal punto di vista del direttore di ipermercato o del fattorino dipendente della cooperativa di servizi terziarizzata (attori che percorrono i non-luoghi di Augė assai più spesso dei clienti), il risultato etnografico sarebbe certamente diverso, forse anche più ricco (un esempio di nessuna importanza in questo mio articolo). Per questa ragione ho l’impressione che estendere la definizione di non-luogo ad ogni spazio che paia abbandonato o esteticamente discutibile possa portare poca utilità all’argomentazione di Testa (che nel complesso condivido) nel senso che rende eccessivamente indeterminato l’oggetto a cui ci si approccia e lo lega ad attribuzioni non corrette.

L’altro problema è che i non-luoghi di Augė non sono affatto degli spazi abbandonati o temporaneamente dismessi ma, al contrario, dei nodi attivi della circolazione sociale di persone e merci nel capitalismo contemporaneo. In particolare, la categoria di “non-luogo” prevede che si tratti di spazi a-storici e a-relazionali. Ma nel caso dei luoghi abbandonati questo è senz’altro falso, per definizione, in quanto un luogo è abbandonato se prima ha avuto una vicenda di possesso, uso, funzione. Quindi una sua storicità In effetti, se seguiamo il ragionamento di Testa, proseguendo la lettura, vediamo che progressivamente si specifica meglio cosa egli intenda davvero per “non luogo“, attraverso il riferimento al lavoro di Robert Smithson e alla dialettica fra Site e Non-site da questi sviluppata in: A provisional theory of nonsites (1968).

Della visione di Smithson a Testa interessa in particolare l’idea che fra luogo e non-luogo, non ci sia una reale opposizione ma piuttosto si strutturi uno spazio di significazione aperto e percorribile in entrambe le direzioni. E questo ci riporta alla categoria di passaggio, in particolare, a mio modo di vedere, ci richiama ad un altro vecchio concetto antropologico, vecchio ma ancora fertile, quello dei “rites de passages” (Arnold Van Gennep). I riti di passaggio sono riti che marcano lo spostarsi degli individui fra stati sociali differenti: la circoncisione, la fine della pubertà, il matrimonio, per fare degli esempi. I riti di passaggio si compongono generalmente di tre fasi : separazione, liminalitá e riaggregazione ed è caratteristica di ciascuna fase un simbolismo che rappresenta la specifica situazione rituale. In particolare, durante la fase liminale il simbolismo esprime il fatto che gli individui non sono più ciò che erano ma ancora non sono qualcos’altro. In questo stato “liminale” essi sono socialmente indeterminati. Allo stesso tempo rappresentano un potere e un pericolo, sono liberi dalle regole sociali ma sono tenuti lontani perché -proprio per questa ragione – potenzialmente “contaminanti”, fonte di disordine sociale. Potranno ritornare in società solo dopo la fase rituale di “riaggregazione” che assegna loro un nuovo posto in società.

Le parole di Testa (e di Smithson) sulla indeterminazione dei luoghi “vuoti” e inutilizzati sembrano quasi avvicinarsi al concetto antropologico di liminalitá, senza tuttavia approdarvi. Questo non è un difetto beninteso, si tratta di dibattiti e campi del sapere diversi che possono arrivare a elaborazioni analoghe per vie diverse e senza mutua consapevolezza. È però molto interessante, dal mio punto di vista, osservare che questa vicinanza di concetti esiste e che può essere interessante svilupparla.

Il concetto di liminalitá, infatti, associato alla funzione di passaggio che hanno i luoghi “del terzo paesaggio” potrebbe essere, ben più del concetto assai impreciso di non-luogo, una prospettiva concettuale interessante da sviluppare con l’obbiettivo di comprendere meglio la funzione poetica dei luoghi “inconclusi”.

https://holtsmithsonfoundation.org/news/suburban-odyssey-revisiting-smithsons-passaic


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