Immaginare / vodoun

Una nuova puntata di “Immaginare” su Masticadores-Italia

Siamo quasi a fine novembre. Al mattino, uscendo di casa, le temperature sono ancora sopra lo zero; si susseguono giorni soleggiati e limpidi, di un azzurro indolente. All’una, quando esco per la pausa pranzo, il termometro dell’auto segna sedici gradi e per fare due passi nei sentieri, fra le ronze, bisogna togliere il soprabito.

Su  Via dei Colli passano poche automobili, il chiosco Panoramix è ancora aperto per via dell’autunno soleggiato, ma  al mio arrivo sono l’unico cliente. Mi sistemo ad un tavolo di legno in pieno sole; chiedo un bicchiere di vino rosso e lentamente lo sorseggio  mentre mangio una porzione di riso al curry, portata da casa e leggo qualche pagina dell’Abecedaire di Tobie Nathan. Nel frattempo, si fermano due ciclisti e passa da lì un attempato fotografo.

A tratti, in alto, un po’ di vento scuote i rami delle querce rosse e lentamente si srotola  una rumorosa discesa di foglie, una cascola schioccante di pagine secche e marroni, lobate, arricciate, che rumoreggiano scontrandosi fra loro, coi rami, con le  foglie ancora appese e poi contro i tronchi e ancora sul chiosco, sui tavoli e infine su di me. È un crepitare avvolgente, discontinuo, rilassante; un alternanza di silenzio fra silenzi e rumore fra rumori; stringhe prolungate di suoni secchi che, volentieri, farebbero pensare ad un messaggio e invece ad un tratto cessano, senza esito, così, com’erano cominciate, con il vento che le scatenava.

In questo limpido, secco e temperato novembre, in mezzo ai boschi collinari sopra Torino, nel silenzio punteggiato dal vento, è piuttosto facile abbandonarsi all’idea che un messaggio fra le foglie, in qualche modo, ci sia; che qualche principio, demone o divinità boschiva stia rilasciando dichiarazioni, nella speranza mai doma che qualche passante casuale possa essere in grado di raccoglierle e decifrarle. Non riesco mai, tuttavia, ad abbandonarmi completamente a questo genere di estasi panica; pesa sempre, dentro di me, l’accigliato giudizio di Aristotele che in cuor suo non dubitava sull’esistenza delle divinità o del fatto che avessero messaggi per gli esseri umani; soltanto, si chiedeva con lucido senso delle proporzioni: “Perché dovrebbero voler parlare proprio  con me?”

Nato in una periferia operaia, ad un vertice del triangolo industriale (allora macchine se ne facevano a Mirafiori) io delle divinità dubito francamente. Il mio habitus è cresciuto, come un pino marittimo sottovento, tutto inclinato dalle correnti del razionalismo ed esposto ai balsami di una rassicurante e ragionevole laicità; assumendo una postura intellettuale disincantata e sobria.

Questo precoce laicismo mi ha permesso, già da adolescente,  di liberarmi  dai tremori e dalle sudditanze della cultura cattolica, scrollarmi di dosso l’occhiuta influenza di Gesù Bambino, ignorare i santini disseminati nella libreria domestica e scrollare risolutamente la testa davanti ai dogmi sui quali mia madre, con amorevole pazienza, ha provato qualche volta a catechizzarmi nei sabati pomeriggio della preadolescenza.

Mi accorgo però ora, da adulto, qui nel bosco autunnale luminoso e sospettosamente temperato, di essere alla fine rimasto ostaggio di  questa sobrietà intellettuale. Il bosco fa rumore  certo, colpisce i sensi e interroga l’anima, ma non risponde alle domande che si farebbero al prete (il mio preferito di quand’ero bambino, oltretutto, si è  spretato qualche anno dopo). Non intravvedo angeli o altre presenze, mi  si nascondono gli antenati, lo spirito dei boschi e il soffio vitale delle latifoglie mi snobbano.  Può anche darsi che da lontano si burlino di me; io lo farei. La trascendenza insomma non mi si schiude, non posso rifugiarmi nelle tradizioni degli altri perché me lo impedisce il senso del ridicolo; di quelle del mio mondo non riesco a farmi persuaso. E allora?

Allora abbasso di nuovo la testa sul libro e leggo che ad Akodessewa, nei pressi di Lomè (la capitale del Togo) esiste un famoso grande mercato di materiali e articoli per fabbricare feticci, produrre divinazioni costruire divinità; si chiama “fetish market” ed è una specie di supermercato dell’animismo, dei culti ancestrali e dei sincretismi; un gran bazar degli articoli per fabbricare rimedi, curare possessioni,  onorare antenati, sistemare malesseri, aggiustare e rinsaldare i frammenti della vita di quanti non riescono più a tenerla insieme.  Un polo logistico del Vodoun insomma, che proprio nel Golfo di Guinea ha la sua origine storica e da qui si è diffuso nel mondo, trasportato dal commercio degli schiavi. Questo mercato è in un certo senso anche una farmacia, forse addirittura un ospedale dell’essere; un’officina dei pezzi di ricambio per chi assembla talismani e contrasta il male che gli esseri umani si procurano copiosamente l’un l’altro e anche, frequentemente, per conto proprio.

Parole come vodou e feticcio hanno nella nostra cultura una connotazione sinistra e perfino diabolica, a causa della demonizzazione che la chiesa cattolica ha operato per secoli sulle religioni degli altri, ma anche per effetto della fortuna che il cinema horror vi ha costruito sopra. Ma le cose, in effetti, stanno altrimenti, il termine “vodoun” significa semplicemente “spirito” o “divinità” in diverse lingue diffuse in Africa occidentale ed indica, oltre agli spiriti oggetto di preghiera anche i culti di cui sono destinatari, gli oggetti che li rappresentano e la visione del mondo che in questa religiosità si esprime. Una visione animista, dunque, nella quale sotto l’ombrello di una suprema e distante divinità creatrice, gli spiriti, i vodoun, governano la realta, il mondo naturale e la vita delle persone. A loro si rivolgono i credenti, con rituali e sacrifici, per mettere a posto le cose. In questa visione ogni aspetto del mondo è dotato di principio vitale, il mondo dei morti e degli antenati coesiste a quello dei vivi ma le relazioni, a volte conflittuali, fra tutti questi elementi creano strappi e frizioni che possono essere “sistemate” con gli opportuni interventi rituali.

Vodoun quindi sono gli spiriti ma anche gli oggetti utilizzati per i rituali, le cose che letteralmente vengono fabbricate dai guaritori, allo scopo di incorporare le forze vitali ritenute necessarie a risolvere uno specifico problema, oppure il particolare spirito da cui è necessario proteggersi o del quale bisogna ottenere aiuto.

Alzo nuovamente la testa dalla pagina, un nuovo soffio di vento provoca nuove discese e distribuisce ulteriori messaggi. Dunque, se si rivolgono a un dio, gli animisti prima devono costruirselo, farne un oggetto, osservare il mondo che li circonda e comprendere le forze che lo muovono per portarle nel loro oggetto di preghiera. Quei manufatti compositi, oggetto di preghiere e di rispetto, che i missionari portoghesi chiamarono “feitiço” (dal latino facticius: ‘falso’) e che noi ancora oggi chiamiamo “feticci” portandoci dietro con la parola anche il pregiudizio, sono quindi degli strumenti positivi di intervento sulla realtà.

Se un vodoun è un dio, esso è però un dio “costruito” volta per volta, un principio divino che viene adattato dagli esseri umani alle circostanze; un allestimento e una disposizione di materiali diversi: dal metallo alla sabbia, dal legno alla terra; di sostanze: dall’olio di palma al sangue animale; di bevande: dal vino di palma alla cocacola, dal rum all’acqua limpida. Questa divinità una volta costruita deve essere nutrita per poter crescere e acquisire potere e viene nutrita di preghiere e di attenzioni, di parole e di intenzioni. In questo modo si compie la mediazione fra il piano umano e il piano divino e insieme si compie la ricerca della soluzione ai problemi che affliggono la vita.

Si tratta di un approccio radicalmente empirico e contestuale, un approccio alla trascendenza di carattere “artigianale”, da bricoleur, che assegna all’azione individuale un ruolo costruttivo e positivo nella relazione con le forze che regolano la vita e si basa su un modello di pensiero di tipo plurale, politeista, aperto.

Potrei dunque, a mia volta, raccogliere queste foglie cadute, le ghiande, qualche chicco del mio riso al curry, l’ultimo sorso di vino rosso e avvolgere tutto in una pagina di appunti, strappandola al taccuino. Di questa testimonianza eteroclita dell’oggi, poi, non saprei bene che fare – lo confesso – ma comunque mi sentirei appagato rispetto al suono delle foglie e contemporaneamente al sicuro dal mio disagio verso Aristotele e il suo giudizio; libero dal peso di dovermi spiegare perché gli dei, dall’alto, debbano voler parlare proprio con me.

Libero, perchè sarei io a crearli, gli dei, prendendomi la libertà di inventarli, interpellarli, di costruirli, di farli miei. Mi sembra un modello interessante, forse, addirittura, democratico.

(foto: https://www.rollingstone.it)


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