Parcheggio di un ipermercato cinque anni dopo la chiusura, cinque anni dopo gli scioperi, i tavoli, le trattative; sei anni dopo il cambio insegna. In primo piano lo sguardo inciampa in un’associazione erbacea concentrata e fitta, nella quale spiccano spighe di orzo selvatico, infiorescenze di romice e la macchia rossa di un singolo fiore di papavero. Più oltre, sull’asfalto trapuntato di commessure rialzate e dilatate dalla ripresa vegetale, fra le essenze pioniere a tratti si vedono ancora, sbiadite, le segnaletiche orizzontali della viabilità.
Il termine abbandono deriva peraltro dall’antico francese “a-ban-doner” ovvero darsi e affidarsi al giudizio del signore locale. Il ban (in italiano banno), era in effetti, dicono le fonti, la prerogativa del signore feudale di esercitare giustizia, esigere servizi dai suoi contadini e muovere guerra, all’occorrenza
Cinque panettoni gialli di cemento, si trovano dislocati in punti diversi, sull’asfalto, come una pattuglia a difesa del disordine. Gialli, come furono colorati nel 2017 quando, con un inatteso cambio di insegna, l’azienda apriva – proprio qui – il primo “soft-discount in Italia, un negozio di 1.500 metri quadrati, oggi adatto ai bisogni delle famiglie e dei gestori di hotel, ristoranti e bar, come dicevano i comunicati del tempo. Un altro ne apri, per le stesse ragioni, vicino a Novara, qualche settimana più tardi.
Due panettoni si trovano grossomodo in mezzo allo spiazzo, mentre gli altri restano sul fondo, quasi addossati al muretto di confine, in parte nascosti dalle immondizie sparse e dal fogliame. Traversa lo sguardo una rete, che divide lo spazio ad impedire l’accesso nel parcheggio, ma interrotta in più punti e infine una griglia metallica, termosaldata, che rappezza un largo vuoto sulla sinistra. In fondo, chiude la prospettiva un grande tiglio che sovrasta il basso fabbricato delle centraline, rivestito di mattoni rossi mentre sul muro posteriore, affacciato verso la strada regionale, si consumano gradualmente i lembi sfrangiati e illeggibili di un vecchio manifesto, parte incollati e parte penzolanti, quanto rimane, forse, della pubblicità di un circo.
Uno stato di ab-ban-dono è dunque propriamente quello in cui la responsabilità della cura scompare, viene a mancare l’autorità che ne era titolare.Un potere si disimpegna, unilateralmente, delle persone e del luogo che presidiava e il luogo resta disoccupato, anche lui, inutilizzato, senza cura; abbandonato insomma.
Davanti al basso fabbricato c’è un cassonetto e poco distante, a terra, appoggiati ad altri ammassi di resti di cose, di cose rimaste, di cose giunte fino a lì in qualche modo, due materassi di diverse dimensioni e alcuni sacchi dell’immondizia, un bidone verde, rotture di oggetti che non si distinguono, ai quali non si arriva a dare un nome, non tanto per la lontananza dello sguardo quanto perché manca, non si rintraccia, la funzione delle cose osservate.
Il banno si è esercitato a lungo come consuetudine, come diritto di uso signorile anche dei servizi collettivi delle comunità come ad esempio il mulino, il forno, il frantoio; il banno indicava dunque il signore e insieme la farina, il pane, l’olio; la quotidianità insomma. Per questo l’aggettivo bannale sfumato poi in banale è passato ad indicare quella parte tanto essenziale e ovvia della quotidianità da sembrare naturale, banale appunto, come sembrano banali il pane e il lavoro.
Poi, semplicemente, le auto smettono di parcheggiare, nessuno più taglia i polloni, le graminacee, le poacee, le asteracee e altre famiglie ancora prendono il luogo a quelle che prima lo frequentavano, si sostituiscono a loro. I cassonetti dell’immondizia una volta relegati nel piazzale di scarico ora stanno lì davanti, visibili, vicino alla strada e visibilmente nessuno li svuota. I sacchi accumulati e i materassi abbandonati disvelano così un’altra assenza, quella di un’autorità pubblica, che sui luoghi abbandonati non interviene, a lungo, rendendo cosi visibile, in controluce, la funzione di controllo e di governo del territorio.
L’abbandono, l’assenza di responsabilità e di cura, riguarda allo stesso tempo i lavoratori e il luogo di lavoro, le persone e lo spazio, con ciò che contiene. Le lattughe fanno cespuglio fra le pieghe dell’asfalto, le parietarie si rapprendono ai cordoli, fra i fiori di veccia volano numerosi e indifferenti gli imenotteri pronubi e c’è un’asimmetria palese in questo, se ci si pensa, perché i lavoratori, dal canto loro, non possono lasciare privo di cura il luogo di lavoro, per contratto, a pena di sanzioni, anche gravi. La direzione può invece risolvere i rapporti e abbandonare, il luogo e il lavoro insieme.
C’è banalità dunque, più che bruttezza, nell’abbandono di uno spazio pubblico, c’è disordine ma col disordine c’è il prevalere di una forza indifferente che lavora al recupero dello spazio, alla sua trasformazione dal pubblico al selvatico, dall’asfalto al tarassaco, dalle normative alle assenze e che ripiega in certo modo la semantica dell’abbandono verso la banalità e l’arbitrio delle sue origini.
Questa dunque è una frontiera
(questo progetto si sviluppa, in parte, dalla lettura di “Autorizzare la Speranza” (Italo Testa, 2023)
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