Atti, parole, mutamenti

Il 18 dicembre 2025 anche il Comune per cui lavoro è entrato nell’Archivio Nazionale digitalizzato dello Stato Civile (ANSC) come ormai la maggior parte dei comuni italiani. Si tratta di un vero mutamento epocale, non solo per i cittadini e la pubblica amministrazione ma, in senso più ampio, anche rispetto al modo di riconoscere e “custodire” la  legittimità  delle parole, perlomeno quelle particolari parole che per modalità, fonte e contesto sono capaci di avere conseguenze pratiche sulla vita delle persone e che per questo si definiscono: “atti“.

Il giorno precedente, il 17 dicembre, era stata fatta – per l’ultima volta – la chiusura dei Registri di Stato Civile in formato cartaceo, concludendo in questo modo una storia durata circa 160 anni,  perché i primi registri di stato civile dello stato italiano iniziarono ad essere compilati nel 1866, in forza del Regio Decreto numero 2602 del  1865, che istituiva l’ordinamento dello Stato civile nel Regno d’Italia. Per i periodi precedenti erano soprattutto i registri parrocchiali ad assolvere questa funzione di “custodia” della “parola – atto“, perlomeno a partire dal Concilio di Trento (più indietro non ha senso andare nel contesto di questa nota),  è abbastanza evidente l’esistenza di un nodo che lega le parole e le istituzioni quando le parole hanno la particolare consistenza e l’efficacia degli atti.

Ho trovato un altro riferimento molto interessante al nesso fra “parola” e “atto”  in un articolo di Enrico Redaelli, dal titolo: L’atto. Fra psicanalisi e filosofia, che la rivista online “Le Parole e le Cose” riprende dal numero 2/2025 di  “Frontiere della psicoanalisi”. 

Redaelli sostiene che la filosofia (intesa come parola impegnata in un processo di conoscenza che vuole intervenire sul reale), avrebbe molto da imparare dalla psicanalisi e in particolare dal suo essere parola che fa accadere qualcosa, ovvero, nello specifico, un cambiamento nel paziente; dunque parola che è  atto. Cio è possibile, dice Redaelli citando (non solo) Lacan, perché nel contesto psicoanalitico la parola è parte di un flusso relazionale dotato di una sua connotazione emotiva (il transfert). In questo contesto la parola può far accadere delle cose e rendere possibili trasformazioni e disposizioni nuove nei soggetti coinvolti dalla relazione. Ma ciò  è possibile anche perché quella relazione ha luogo all’interno di un contesto istituzionalmente codificato e socialmente riconosciuto (il setting analitico).

La parola dunque si fa atto e può custodire il suo potere trasformativo quando si sviluppa lungo un flusso di relazioni nel quadro di un contesto istituzionale. Lo vediamo accadere, per tornare al tema iniziale, nel caso della formazione e della custodia degli atti di stato civile e lo vediamo accadere, ci dice Redaelli, nella capacità trasformativa del discorso psicanalitico, all’interno della relazione di cura.

C’è poi un altro ambito istituzionale nel quale la parola condivisa si carica di un potere trasformativo e lo custodisce: è la poesia; il nesso fra questi tre contesti mi pare particolarmente interessante e meritevole di approfondimenti. Questa volta ci viene in soccorso un antropologo anglosassone, Victor Turner, studioso (ormai qualche decennio fa) dei processi rituali e dei contesti di elaborazione simbolica del cambiamento sociale, contesti che egli definisce: social drama. Nel suo libro “Dal rito al teatro”  (prima edizione 1982) Turner rivolge le proprie competenze allo studio di contesti performativi non direttamente religiosi o rituali, in particolare il campo della produzione artistica nelle moderne  società occidentali. Turner definisce social drama i processi di cambiamento sociale nei quali individua le tre  fasi di conflitto, crisi e compensazione. La terza fase, detta di compensazione, costituisce un modo pubblico di valutazione del comportamento sociale che ha lo scopo di dare un assetto stabile alla soluzione del conflitto esploso con la crisi. Nelle società meno strutturate sono soprattutto gli ambiti della legge e della religione a svolgere questa funzione, nelle società più complesse, invece, l’opera di valutazione e “aggiustamento” delle norme che reggono l’ordine sociale si sposta al campo delle arti..

In un certo senso” ci dice Turner, “ogni tipo di performance culturale, compresi il rito, la cerimonia, il carnevale, il teatro e la poesia è spiegazione ed esplicazione della vita stessa […]  Mediante il processo stesso della performance ciò che in condizioni normali è sigillato ermeticamente, inaccessibile all’osservazione e al ragionamento quotidiani, sepolto nelle profondità della vita socioculturale, è tratto alla luce” (p. 36). Turner spiega questo processo nei termini della circolarità “ermeneutica” dell’esperienza, ricorrendo al pensiero del filosofo Willhem Dilthey. Il ragionamento è troppo ampio per poterlo sviluppare in questo contesto, ma è forse sufficiente riassumerlo qui nell’idea che l’esperienza e la sua comprensione attraverso una performance (etimologicamente portare fuori, condividere) fanno parte di un unico processo conoscitivo che è di tipo circolare o, per dire meglio, a “spirale ascendente“, nel senso che ogni giro aggiunge qualcosa di nuovo. Un’esperienza dunque non è mai davvero completa finché non viene espressa cioè comunicata agli altri in maniera intellegibile, attraverso il linguaggio, la gestualità, le immagini o altro. Questa condivisione, pubblica e istituzionalizzata (nel senso che ha un suo posto riconosciuto nella società) contiene sempre anche un commento e un giudizio sull’ordine sociale ed è quindi, almeno potenzialmente, in grado di trasformare la realtà.

Quando le parole sono atti dunque esse tengono gli individui e le loro relazioni in un quadro istituzionalizzato, un ordine diciamo, ma contengono al tempo stesso la forza e il riconoscimento sociale necessari per mettere in discussione quell’ordine, per modificare la realtà, sia sul piano simbolico (ad esempio la poesia, che agisce sul senso delle parole) sia  su quello pratico (come l’atto di matrimonio che cambia gli obblighi reciproci di due persone e delle loro famiglie).

La “tecnologia” con cui questa parola-atto viene prodotta e conservata non è un elemento accidentale del processo, al contrario essa  è componente essenziale del contesto istituzionale in cui il processo (dell’esperienza e della trasformazione del reale) avviene. Ad esempio, i passaggi dall’oralità alla scrittura e, nell’ambito di quest’ultima, dalla scrittura amanuense alla stampa, hanno modificato radicalmente perfino la struttura cognitiva delle società interessate (J. Goody, L’interfaccia fra oralità e scrittura, 1987). Lo stesso vale per la digitalizzazione – e qui torniamo al tema iniziale, per chiudere il cerchio  –  che investe direttamente il criterio di originale e copia di un documento, le condizioni della sua trasmissibilità (si veda il D. Lgs numero 82 del 2005)  e può avere conseguenze sulla stessa produzione individuale di parola in modo forse perfino più radicale di quanto stia accadendo grazie alle tecnologie della cosiddetta intelligenza artificiale.


in fotografia, il primo atto registrato nello Stato Civile del Comune di Moncalieri, il 3 gennaio 1866: la nascita di una bambina.


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