Poesia, ma insieme

Periferia Letteraria ha “festeggiato” sabato 22/3, alla Casa del Quartiere BarriTo,  il suo 21 marzo, la sua Giornata Internazionale della Poesia. L’ha fatto mettendo assieme un bell’incontro dal titolo chiaro e diretto: “Festeggiamo, insieme, la poesia”.

Molti amici della poesia hanno offerto una lettura, un brano, la propria presenza.  Io ho scelto di ricordare che il 21 marzo è anche la “Giornata della Memoria e dell’Impegno per le Vittime Innocenti di tutte le mafie“. E la coincidenza non è fortuita.

Per questo motivo ho portato con me il testo: “Chistu unn’è me figghiu, presentandolo (e sbagliando, seppure in buona fede) come poesia di Felicia Bartolotta, la mamma di Peppino Impastato, ucciso a Cinisi dalla mafia, per ordine di Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti, l’8 maggio 1978. La dolente e intensa poesia si è “diffusa” negli anni con questo titolo e questa attribuzione, ma in realtà è intitolata “La matri di Peppino” ed è stata scritta da Umberto Santino, attivista e studioso antimafia fin dagli anni ’70; fondatore con Anna Puglisi nel 1977, a Palermo, del “Centro Siciliano di Documentazione”, intitolato poi alla memoria di Giuseppe Impastato dal 1980.

Si tratta, come accennato, di una poesia dolorosa e intensa, che evoca il dolore della madre per il figlio e lo tiene insieme a quello del cittadino per la propria terra, popolata di padri “che non hanno figli.”

In quanto torinese di origini veneto-trentine ho chiesto l’aiuto dal pubblico per la pronuncia e fortunatamente si è offerto di leggerla per me, in siciliano, Giuseppe Iozzia, che ringrazio di cuore.

Si può trovare il video dell’intera serata sul profilo Fb di Periferia Letteraria.


La matri di Pippinu

Chistu unn’è me figghiu.
Chisti un su li so manu
chista unn’è la so facci.
Sti quattro pizzudda di carni
un li fici iu.

Me figghiu era la vuci
chi gridava ’nta chiazza
eru lu rasolu ammulatu
di lo so paroli
era la rabbia
era l’amuri
chi vulia nasciri
chi vulia crisciri.

Chistu era me figghiu
quannu era vivu,
quannu luttava cu tutti:
mafiusi, fascisti,
omini di panza
ca un vannu mancu un suordu
patri senza figghi
lupi senza pietà.

Parru cu iddu vivu
un sacciu parrari
cu li morti.
L’aspettu iornu e notti,
ora si grapi la porta
trasi, m’abbrazza,
lu chiamu, è nna so stanza
chi studìa, ora nesci,
ora torna, la facci
niura come la notti,
ma si ridi è lu suli
chi spunta pi la prima vota,
lu suli picciriddu.

Chistu unn’è me figghiu.
Stu tabbutu chinu
di pizzudda di carni
unn’è di Pippinu.

Cca dintra ci sunnu
tutti li figghi
chi un puottiru nasciri
di n’autra Sicilia

(Umberto Santino, 1979)

La madre di Peppino

Questo non è mio figlio.
Queste non sono le sue mani
questo non è il suo volto.
Questi brandelli di carne
non li ho fatti io.

Mio figlio era la voce
che gridava nella piazza
era il rasoio affilato
delle sue parole
era la rabbia
era l’amore
che voleva nascere
che voleva crescere.

Questo era mio figlio
quand’era vivo,
quando lottava contro tutti:
mafiosi, fascisti,
uomini di panza
che non valgono neppure un soldo
padri senza figli
lupi senza pietà.

Parlo con lui vivo
non so parlare
con i morti.
L’aspetto giorno e notte,
ora si apre la porta
entra, mi abbraccia,
lo chiamo, è nella sua stanza
a studiare, ora esce,
ora torna, il viso
buio come la notte,
ma se ride è il sole
che spunta per la prima volta,
il sole bambino.

Questo non è mio figlio.
Questa bara piena
di brandelli di carne
non è di Peppino.

Qui dentro ci sono
tutti i figli
non nati
di un’altra Sicilia.


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