Immaginare / Virginia d’ij Can (6)

Esce oggi (con alcuni giorni di ritardo, dei quali mi scuso la sesta parte della storia di Virginia d’ij Can

Il giorno 28 dicembre 1885, verso sera, la Ville de Bordeaux approdava a Colon, la porta atlantica dell’itsmo di Panama. Le operazioni di sbarco e il controllo dei documenti vennero condotte dalle autorità federali degli Stati Uniti di Colombia direttamente a bordo del piroscafo, per ragioni sanitarie e di sicurezza. La città era infatti ancora segnata dagli eventi dei mesi precedenti, prima fra tutti la guerra civile scoppiata giusto un anno avanti fra conservatori e radicali, l’intervento degli Stati Uniti ancora in agitazione per la firma, nel 1878, del trattato fra Colombia e Francia per la realizzazione del Canale di Panama; la conseguente reazione militare del Cile allarmato a sua volta dall’intervento statunitense nell’area dell’itsmo. Poi l’insurrezione popolare guidata dal giovane radicale Pedro Prestan, la rabbia crescente fra i cholos, i mestizos, i negro cimarrones per i soprusi e le confische di terra collegate dapprima alla costruzione della ferrovia e poi in ragione del canale. Poi, ancora, non ultimo, l’enorme incendio scoppiato durante la battaglia di aprile che aveva devastato quasi completamente la città e infine, con la vittoria delle forze conservatrici di Bogotà appoggiate dalla marina statunitense, la cattura di Prestan e la sua impiccagione, il 18 di agosto, che aveva scosso molto profondamente una popolazione che in quel giovane capo militare e avvocato di umili origini aveva visto accendersi e brillare una speranza di giustizia.

Sul piroscafo in arrivo dall’Europa, Luigi Albino Malagoni aveva poca coscienza di queste tensioni se non per i racconti coloriti e necessariamente frammentari che glie ne faceva Godio, a tavola o fumando sul ponte. Da pochi giorni, in pratica solo dalla cena di gala organizzata a bordo per festeggiare il Natale, egli aveva stretto conoscenza con Lucien Bonaparte Wise, negoziatore ed esploratore geografico per conto della Compagnie Universelle du Canal Interocéanique de Panama, con il suo collaboratore Armand Reclus, un distinto ufficiale della marina francese che figurava anche fra gli autori del progetto generale per la realizzazione del Canale e anche, naturalmente, con i diversi altri ingegneri, impiegati, medici e funzionari della Compagnie Universelle che si stavano recando a Panama per dare impulso ai lavori. A costoro si accompagnavano, nella piccola “aristocrazia di bordo” che come di consueto si era formata durante la lunga traversata oceanica, anche Don Manuel Herrera, Ministro della Repubblica di Guatemala in rientro da un viaggio d’affari in compagnia del cognato, Don Emilio Luna, gentiluomo e naturalista, che Godio mostrava di conoscere da più tempo degli altri e alla cui erudita gentilezza confessava volentieri di dovere molte delle proprie conoscenze in merito – come amava dire – “a queste bizzare, ricche e difficili terre centro-americane“.

Malagoni era stato dunque introdotto alla tavola di queste “autorità” dal senor Godio, come chiamavano tutti l’unico giornalista ufficialmente presente a bordo, che lo aveva presentato alla buona società di bordo come un allevatore e commerciante italiano di bestiame, particolarmente versato nella “fornitura” di guarnigioni militari e di grandi organizzazioni. A lui era sembrata sul momento una definizione un po’ forzata ma non aveva potuto fare a meno di rilevare come, così illustrata, la sua figura professionale risultasse molto più coerente al contesto caraibico, per quel poco che cominciava a conoscerlo. Dunque, ringraziando Godio per il favore, aveva approfittato rapidamente dell’interesse che quella presentazione e la sua brillante conversazione poliglotta andavano suscitando fra gli illustri commensali.

Nello spazio di quei pochi ultimi giorni di traversata, Malagoni era dunque entrato nella fiducia della spedizione francese e di questa sorta di protezione aveva trovato rapidamente il modo di approfittare quando si era trattato di convincere l’ufficiale di dogana panamense a registrarlo come solo Albino Malagoni, lasciando da parte il suo primo nome per premunirsi una volta di più rispetto ad eventuali ricerche delle prefetture italiane attraverso la rete consolare. In verità, fra la fine del 1885 e l’inizio del 1886 sia i consoli italiani in Colombia che le autorità panamensi avevano ben altre preoccupazioni e questioni di cui occuparsi, considerando sia lo spinoso “caso Cerutti” che la guerra civile, i lavori del canale e le ricorrenti epidemie di febbre gialla, solo per dire le cose maggiori. In buona sostanza, il suo sbarco al seguito della Compagnie Universelle venne sostanzialmente ignorato dalle autorità. Scendendo a terra, un Albino Malagoni piuttosto rilassato e di buon umore rimase colpito dalla bellezza della rada e del Golfo di Limon; alla sua sinistra vedeva l’isola di Manzanillo e più oltre, sul fondo, gli apparivano ordinati gli edifici della strada principale di Colon, circondati da sottili e altissimi cocoliers – i palmizi da cocco – in qualche modo evidenziati dal tracciato della ferrovia dell’itsmo, anche quella inaugurata da appena un anno. Tutto intorno, il territorio era rivestito di foreste fittissime, di un verde brillante che non gli pareva di avere mai visto prima di allora.

Avvicinandosi, però, le cose si mostravano in dettaglio ben diversamente. A parte la Main Street, nel complesso piuttosto ordinata e piacevole con i locali e gli edifici più importanti, una statua dedicata a Cristoforo Colombo, qualche albergo internazionale e la stazione ferroviaria, tutte le altre vie erano fangose, scalcinate, fiancheggiate da casupole e baracche di legno, molte delle quali ancora affumicate per le vampe del grande incendio dell’anno prima. Altre sembravano rimesse assieme di fortuna, con tavole ricavate da casse di frutta e di liquore; dappertutto si vedevano mucchi di immondizie e animali di ogni genere che razzolavano e grufolavano di qua e di là in cerca di cibo.

I funzionari della Compagnie presero alloggio al Whashington Hotel, uno dei pochi edifici risparmiati dal grande incendio. Malagoni invece, in compagnia di Godio e dei gentiluomini guatemaltechi, prese alloggio presso l’Hotel Roma, tenuto da uno dei tanti ex garibaldini che, dopo il 1866, finite le imprese militari e le grandi cause patriotiche avevano raggiunto le Americhe con l’intento di costruire imprese e solide reti di affari. Era lì, secondo le indicazioni ricevute a Genova da Ernesto Cerruti , che avrebbe dovuto incontrare un suo vecchio socio d’affari, dal quale poteva ricevere indicazioni utili su come muovere i primi passi nel nuovo contesto. Quella sera, in albergo, seppero che il vecchio socio di Cerutti fiutando i venti di guerra aveva lasciato Colon oltre un anno addietro, per spostarsi sulla costa pacifica verso occidente, allo scopo di impiantare un grande allevamento nelle più tranquille province di Coclè o di Veraguas. Cenando, Godio gli consigliò di proseguire l’indomani con lui e i gentiluomini diretti in Guatemala, perlomeno fino a raggiungere la città di Panamà, dove avrebbe potuto farsi un idea più chiara della situazione generale e prendere con cognizione di causa le proprie decisioni.


Foto: Illustration depicting the Terminus of the Panama Railway at Colón. Dated 19th century World History Archive / Alamy Stock Photo


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